Dall’ultimo update sono successe parecchie cose. Andiamo per ordine.
Export e pil cinesi
La settimana scorsa sono stati diffusi i dati economici cinesi del primo trimestre. La Cina ha diffuso i dati sul suo interscambio commerciale di marzo. Ebbene, le esportazioni sono arrivate a sfiorare i 314 miliardi di dollari statunitensi, con un aumento del 12,4% rispetto a marzo 2024. Si tratta di un dato incredibilmente elevato. Nei primi due mesi dell'anno la crescita si era fermata al 2,3% e alla vigilia dei dati di oggi gli economisti si aspettavano una crescita del 4,4%. Contestualmente, le importazioni di Pechino sono invece diminuite del 4,3% su base annua.
Secondo gli analisti, i dati sono frutto di una forte accelerazione delle spedizioni di merci da parte delle fabbriche cinesi. Importatori ed esportatori si sono affrettati a concludere più scambi possibile in vista del "Liberation Day" di Trump. Gli osservatori si aspettano dunque un crollo dell'export cinese nei prossimi mesi, con l'entrata in vigore dei dazi imposti dalla Casa Bianca. Ma a Pechino danno ai dati un'interpretazione parzialmente diversa. I media cinesi sottolineano che nel primo trimestre del 2025 l'avanzo commerciale con gli Stati Uniti è aumentato, passando da 70,2 a 76,6 miliardi di dollari. Ciò significa che Pechino ha aumentato le vendite e diminuito gli acquisti da Washington. In particolare, sono crollate le importazioni di soia e altri prodotti agroalimentari finiti per primi nel mirino delle ritorsioni cinesi. Secondo i media di stato, i dati dimostrano che un vero disaccoppiamento commerciale tra le due prime economie mondiali è quasi impossibile.
Nel primo trimestre il prodotto interno lordo di Pechino è invece cresciuto del 5,4%. Battute le previsioni del 5% della vigilia, che è anche l'obiettivo annuale fissato dal governo per il 2025. La sensazione, o meglio la certezza, è dunque che i fornitori cinesi e gli importatori degli altri paesi abbiano accelerato spedizioni e anticipato acquisti per evitare i dazi degli Stati uniti.
La crescita del pil è infatti trainata dalla produzione industriale, aumentata del 6,5% su base annua nel trimestre e del 7,7% nel solo mese di marzo. Gli aumenti più sostenuti sono nel manifatturiero, in primis informatica, auto e metalli. Vale a dire alcuni dei settori più esposti alla guerra commerciale. Ci si aspetta dunque un peggioramento dei dati per i prossimi mesi. Presentandoli, le autorità cinesi hanno riconosciuto che i dazi di Trump avranno un impatto sul commercio e l'economia cinese. Un segnale positivo, forse il più positivo, per Pechino arriva dunque dalle vendite al dettaglio, cresciute del 4,6% nel trimestre e del 5,9% a marzo dopo il lancio di un ampio piano per stimolare i consumi. La Cina punta d'altronde tantissimo sul rafforzamento del mercato interno per ridurre la dipendenza dall'export e attutire l'impatto delle tasse doganali.
Ne ho parlato qui (dal minuto 3.15) e qui (dal minuto 14.45).
Il cambio del capo negoziatore
Nel frattempo, è stato sostituito il rappresentante per il commercio internazionale. Si tratta di una mossa improvvisa e giudicata urgente, visto che è stata inusualmente annunciata mentre il presidente Xi Jinping si trovava all'estero, nel suo tour nel Sud-est asiatico. Il capo negoziatore rimosso è Wang Shouwen, un veterano della diplomazia commerciale cinese. È stato lui a guidare i negoziati del 2020 con gli Stati uniti che si conclusero con l'accordo di fase uno, poi ampiamente disatteso anche a causa degli effetti del Covid.
Al suo posto arriva Li Chenggang, che dal 2021 ha ricoperto il ruolo di inviato presso l'Organizzazione mondiale del commercio a Ginevra. Da qui, nelle scorse settimane, ha usato parole molto dure verso i dazi di Trump. Il cambio della guardia sembra avere un duplice significato. Da una parte, mentre Trump continua a spingere per un colloquio diretto con Xi, la Cina sembra dire che si dovranno usare canali tradizionali per iniziare i negoziati. Dall'altra, il cambio potrebbe comunicare anche la volontà di superare l'impasse e avviare il dialogo, seppur con una nuova figura che offre meno certezze a Washington. Al resto del mondo si comunica invece che la Cina vuole rafforzare il ruolo dell'Organizzazione mondiale del commercio, elemento ribadito in tutti gli incontri diplomatici di queste settimane.
Xi Jinping nel Sud-Est asiatico
La scorsa settimana, Xi Jinping ha effettuato il primo viaggio all’estero del suo 2025, con tre tappe: Vietnam, Cambogia e Malaysia. Ognuno ha un'importanza notevole. Hanoi, dove Xi è stato già nel dicembre 2023, ha accolto imponenti investimenti da aziende cinesi (oltre che statunitensi) negli scorsi anni. Ma è anche diventato il canale di transito privilegiato delle merci poi triangolate verso gli Usa per evitare i dazi. Xi vuole assicurarsi che questo canale non venga ostruito, ma secondo Reuters il governo vientamita starebbe valutando una stretta sui prodotti della Repubblica popolare. Un cadeau a Trump (insieme all'avvio di acquisti nel settore della difesa) per sperare di vedersi cancellare tutto o quasi quel 46% di tasse aggiuntive annunciato durante il Liberation Day e ora congelato per 90 giorni.
La Cambogia è il paese più vicino a Pechino dell'intera regione. Non solo dal punto di vista commerciale, ma anche della sicurezza, visto che giusto la scorsa settimana il premier Hun Manet ha inaugurato la rinnovata base navale militare di Ream, realizzata con fondi cinesi. Diventerà un punto d'accesso strategico per la marina di Pechino sul mar Cinese meridionale.
La Malaysia si è invece inserita con efficacia nei complessi ingranaggi della catena di approvvigionamento dei microchip. Ed è presidente di turno dell'Asean, con cui la Cina sta trattando un codice di condotta nelle acque contese.
Xi, che nei giorni scorsi ha parlato di "valori asiatici" in contrapposizione al protezionismo e "imperialismo" americani, è pronto a offrire vantaggi commerciali ai paesi del Sud-Est. Così come a quelli europei, a patto di ricevere qualche sponda anti Trump.
Ne ho parlato qui (dal minuto 2.55).
Interessante, sulla tappa in Cambogia, il fatto che sia avvenuta durante le festività del capodanno cambogiano. Ma in realtà il 17 aprile è anche il cinquantesimo anniversario dell'ascesa al potere dei Khmer rossi, di cui la Cina maoista era il principale sponsor internazionale. Si cerca di cogliere tra le righe il messaggio di quella che non sembra una coincidenza.
Forse un segnale di potere, più probabilmente la richiesta di non cedere alle pressioni della Casa Bianca. Nonostante il passato, Cina e Cambogia sono il perfetto esempio di Paesi "fratelli di sangue", sembra dire Xi, proponendo la sua retorica di "futuro condiviso" e dei "valori asiatici" che vede ovviamente Pechino al centro della resistenza a quello che definisce imperialismo commerciale.
Ne ho parlato qui (dal minuto 25.20).
I blocchi alle terre rare
"Il Medio Oriente ha il petrolio, noi abbiamo le terre rare". Era il 1987, quando l'allora presidente cinese Deng Xiaoping pronunciò queste parole, visitando uno dei giacimenti più grandi al mondo. Oggi, la Cina domina estrazione, raffinazione ed esportazione di quel gruppo di risorse e metalli cruciali. In alcuni casi il dominio supera il 90% della quota globale.
Pechino intende usare questo vantaggio come un'arma, forse quella definitiva, nella guerra commerciale contro gli Stati Uniti. Il 4 aprile, in risposta ai dazi del Liberation Day di Donald Trump, il governo cinese ha ordinato restrizioni all'export di sei metalli delle terre rare pesanti. Fin qui, non è stata chiarita l'entità della stretta. Ma secondo il New York Times, da allora le spedizioni sono in buona parte sospese. Metalli e magneti restano fermi nei porti cinesi, in attesa di regole precise.
Questo sta destando molta preoccupazione anche in Europa, visto che la stretta non colpisce un singolo paese. Anche se il New York Times sostiene che in realtà i funzionari cinesi stiano chiudendo un occhio sulle spedizioni non dirette negli Stati Uniti. Terre rare e metalli interessati sono fondamentali per la produzione di batterie agli ioni di litio, veicoli elettrici, turbine eoliche, microchip per smartphone e intelligenza artificiale. Ma l'impatto può essere forte anche sull'industria della difesa. In particolare su droni e missili. Ma i media cinesi sostengono che sarebbe a rischio il progetto F47, il jet di sesta generazione lanciato recentemente da Trump.
A capo del progetto c'è Boeing. E proprio oggi la Cina ha ordinato alle propria compagnie aeree di non accettare ulteriori consegne del colosso americano, che senza alcuni dei metalli inclusi nei divieti non sarebbe in grado di sviluppare sistemi radar e le barriera termiche che impediscono la fusione dei motori in volo. I magneti delle terre rare rappresentano solo una piccola parte minuscola delle esportazioni della Cina verso gli Stati Uniti. Quindi, il blocco delle spedizioni causerebbe un impatto economico minimo per Pechino, ma notevole per gli altri.
Per questo, i media cinesi considerano le terre rare una sorta di garanzia contro il disaccoppiamento economico con Washington. E c'è chi sostiene che la retromarcia di Trump sui dazi contro pc e smartphone sia dovuto proprio alla mossa di Xi sui metalli cruciali. Una mossa che mantiene contorni ancora indefiniti, con Pechino che vuole tenersi una certa flessibilità per poter modulare il blocco a seconda dell'andamento della battaglia commerciale.
Ne ho parlato qui (dal minuto 11.45).
Lo stop ai Boeing
A Seattle, nell'hub della Boeing, da sabato a lunedì scorsi ci sono stati due atterraggi imprevisti. Si tratta di due jet 737 del colosso degli Stati Uniti, rispediti a casa dalla Cina. Entrambi sono arrivati ancora con la livrea della compagnia cinese Xiamen Airlines, a cui erano destinati. Ma, poco prima dell'entrata in servizio, sono stati rimandati indietro.
Nessun problema tecnico, i due jet sono vittime della guerra commerciale tra Washington e Pechino. La scorsa settimana, il governo cinese ha sospeso tutti gli acquisti di aerei e dispositivi Boeing da parte delle sue compagnie aeree. Una delle ritorsioni contro i dazi imposti da Donald Trump sui prodotti cinesi. Congelati anche gli affari già programmati e stop a 179 ordini, che avevano una consegna prevista tra il 2025 e il 2027.
Visti i due aerei rispediti indietro con la giustificazione dei prezzi troppo alti, non sembrano al sicuro nemmeno i jet già consegnati. Nel 2024, gli Stati Uniti hanno esportato in Cina quasi 12 miliardi di dollari in aerei e componenti, senza importare praticamente nulla. Ma ora Pechino punta a sviluppare le sue industrie nazionali.
Significativo che lo stop alla Boeing sia stato ordinato proprio nel giorno in cui il Vietnam firmava il primo accordo internazionale per l'acquisto di jet C919 della Comac, la compagnia con cui la Cina promette enfaticamente di competere coi colossi occidentali. Non è peraltro escluso che il blocco agli acquisti di jet Boeing possa essere usato come leva per migliorare i rapporti con l'Europa, in particolare con la Francia. In che modo? Promettendo un aumento degli acquisti da Airbus, magari durante la visita in Cina del presidente francese Emmanuel Macron, prevista tra fine maggio e inizio giugno.
Ne ho parlato qui (dal minuto 23.55).
I divieti sui chip e il ceo di Nvidia in Cina
Le restrizioni sui chip imposte da Donald Trump hanno nel mirino soprattutto la Cina. Quello del gigante asiatico è un mercato fondamentale per Nvidia. Tanto che, la settimana scorsa, l'amministratore delegato Jensen Huang è arrivato a Pechino per una visita a sorpresa. Obiettivo: rassicurare sull'interesse del colosso tecnologico per il Paese.
Nel 2024, Nvidia ha registrato 17 miliardi di dollari statunitensi di vendite in Cina, il 13% del totale. Ma ora rischia di vedere andare in fumo 5,5 miliardi di dollari, a causa dell'inserimento del chip H20 alla lista dei divieti di export in Cina. Una mossa che ha colto di sorpresa l'azienda, che lo aveva progettato esclusivamente per conformarsi alle normative per le vendite sul mercato cinese. Tanto che il modello ha giocato un ruolo cruciale nel lancio di Deepseek, il chatbot di intelligenza artificiale che ha avuto un grande successo nei mesi scorsi.
Huang ha incontrato le due figure chiave del commercio di Pechino: il vicepremier He Lifeng, titolare delle politiche economiche, e Ren Hongbin, capo del consiglio cinese per la promozione dell'interscambio globale. A entrambi, ha promesso di compiere letteralmente "ogni sforzo" per continuare a fornire chip al mercato cinese. Huang ha incontrato anche Liang Wenfeng, il fondatore di Deepseek, a cui ha ribadito il tentativo di realizzare un nuovo prodotto ad hoc per il mercato cinese. Da capire se Trump lo consentirà, ma intanto i media cinesi definiscono il viaggio del capo di Nvidia come la prova che i colossi americani non vogliono il disaccoppiamento perseguito dalla Casa bianca. Di certo, la sensazione è che nonostante Trump abbia esplicitamente chiesto ad aziende e paesi di scegliere da che parte stare tra lui e Pechino, Nvidia voglia provare a non scegliere. Almeno fino a quando le sarà possibile.
Ne ho parlato qui (dal minuto 14.20).
Il taglio ai film di Hollywood
Nella guerra commerciale in corso tra Donald Trump e la Cina non ci sono solo i dazi. Nei giorni scorsi, Pechino ha annunciato un taglio all'importazione di film prodotti negli Stati Uniti. Un problema per le major di Hollywood, che negli scorsi anni hanno spesso puntato sul mercato cinese. Ma ora la potenza asiatica punta sul cinema nazionale, anche per ragioni politiche.
Da diversi anni la Cina sta investendo cifre imponenti nello sviluppo dell'industria cinematografica. Nel piano quinquennale approvato nel 2020 si è fissato l'obiettivo di promuovere opere che manifestino spirito, valori, potere ed estetica cinesi. Nel 2021, in occasione del suo centenario, Il Partito comunista ha chiesto a ogni cinema del paese a dedicare almeno due proiezioni alla settimana a film patriottici.
Sono nati così una serie di kolossal nazionali, spesso dai toni nazionalisti. Qualche esempio? The Wandering Earth, blockbuster di fantascienza dove il mondo a rischio non viene salvato da astronauti americani, ma cinesi. Oppure Sharpshooter del grande regista Zhang Yimou, in cui l'eroe è un cecchino cinese che uccide anonimi nemici americani durante la guerra di Corea, un tema frequente anche in altri film di questi anni. E poi c'è Ne Zha 2, film d'animazione uscito negli scorsi mesi e che ha sbancato tutti i record al botteghino con una storia che esalta i valori tradizionali cinesi.
L'avanzata del cinema nazionale non è solo una questione di business, né solamente politica, ma anche e soprattutto una questione di epica. La Cina sa che per diventare una vera potenza globale ha bisogno di una macchina dei sogni, come lo è stata Hollywood per gli Stati Uniti. Una macchina in grado di costruire un'epica in cui è Pechino dalla parte giusta della storia. Sostituendo l'immaginario del sogno americano con quello del nuovo sogno cinese.
Ne ho parlato qui (dal minuto 7.15).
La sfida social
La scena è quasi sempre quella. Un uomo o una donna cinese, all'interno di una fabbrica non meglio identificata, si rivolgono ai consumatori occidentali. Soprattutto quelli degli Stati Uniti. E poi sganciano la clamorosa "rivelazione". Dicono di rifornire da anni una serie di brand di lusso europei, che utilizzerebbero manodopera e materiali cinesi prima di apporre il loro logo e rivendere oggetti di lusso come le borse a prezzi da capogiro.
Da qualche giorno, i social sono invasi di video di questo tipo, soprattutto TikTok. C'è ragione di credere che la raffica di video eserciti un utilizzo psicologico/politico dei social, per sottolineare il ruolo fondamentale della Cina nelle catene di approvvigionamento globali. Giocando sull'insoddisfazione dei consumatori occidentali e americani, che hanno paura di dover pagare ancora di più i prodotti preferiti, si prova dunque a fomentare il dissenso verso la guerra commerciale di Trump. La stessa strategia con profluvio di video soprattutto negli Usa era stata usata alla vigilia della chiusura (poi rinviata) di TikTok, con una sorta di chiamata alle armi degli svariati milioni di utenti statunitensi contro la Casa Bianca che "uccideva la libertà di espressione".
Ne ho scritto qui.
L’ultima apertura al negoziato
"La porta per il dialogo è spalancata". Donald Trump chiama, la Cina risponde. Per ora non direttamente con Xi Jinping, che ha ribadito che i dazi "danneggiano il sistema multilaterale", ma con un portavoce del ministero degli Esteri. "La Cina ha sottolineato dall'inizio che non ci sono vincitori nelle guerre commerciali", ha dichiarato Guo Jiakun, dopo che la Casa Bianca ha promesso un taglio alle tasse aggiuntive contro i prodotti cinesi. Aggiungendo che se Trump "vuole risolvere la guerra commerciale attraverso il dialogo, la smetta con minacce ed estorsioni". L'apertura è significativa, pur se accompagnata dai consueti avvertimenti sulla prontezza di "combattere fino alla fine".
Xi, abbarbicato sulla retorica della "prova di resistenza" a quello che definisce "bullismo imperialista" americano, aveva bisogno di un passo concreto da parte della Casa Bianca. Il possibile abbassamento dei dazi da parte di Trump viene percepito, o raccontato, come un segnale di debolezza. L'ennesimo, dopo lo stop alle tasse aggiuntive su pc e smartphone. Abbastanza per consentire a Xi di giustificare il via ai colloqui, facendo passare gli Usa come la parte debole e più bisognosa di raggiungere un accordo. "Gli Usa si sono accorti che il loro bullismo tariffario è insostenibile e danneggerà la loro economia", commentano non a caso i media statali, che invitano però il governo a non farsi illusioni sull'affidabilità di Trump.
I nodi nel rapporto "più complicato" al mondo restano d'altronde tantissimi e difficili da sciogliere. Ne ho scritto qui.
La prima mezza maratona robot
Andiamo a Pechino, dove oggi si è svolta la prima mezza maratona al mondo per robot. 20 squadre hanno schierato modelli umanoidi, che si sono sfidati al fianco di atleti umani. Secondo gli esperti, si tratta di un enorme passo avanti nello sviluppo del settore, in cui la Cina punta alla leadership grazie alle ultime innovazioni in materia di intelligenza artificiale.
Ne ho parlato qui (dal minuto 13.30).
Il sogno cinese di Bergoglio
"La vorrei visitare, la ammiro". Era l'estate del 2014. Papa Francesco aveva appena concluso il suo primo viaggio apostolico in Asia, in Corea del Sud. Quando il suo aereo sorvola il territorio cinese, Bergoglio esprime per la prima volta in modo esplicito il suo desiderio: ripercorrere i passi del gesuita Matteo Ricci e diventare il primo pontefice della storia a visitare la Cina. Un sogno rimasto inespresso, per Francesco, che come mai nessun altro prima di lui ha lavorato per avvicinare la Santa Sede e Pechino.
Con Papa Francesco, si è aperta una fase nuova. Nel 2018, dopo anni di trattative riservate, è stato firmato un accordo provvisorio tra il Vaticano e la Cina sulla nomina dei vescovi. Un passaggio storico, che ha suscitato reazioni contrastanti. Per alcuni, è stato un passo avanti nel riconoscimento della libertà religiosa e nella tutela dei fedeli cinesi. Per altri, una concessione troppo generosa a un governo che continua a limitare i diritti dei credenti. L'accordo è stato rinnovato già per tre volte: nel 2020 e nel 2022 su una base biennale, nell'autunno del 2024 su base quadriennale. Un apparente salto di qualità che si basa sulla fiducia costruita nel tempo tra i funzionari cinesi e quelli vaticani, in primis il segretario di Stato Pietro Parolin, fautore del disgelo.
Ne ho scritto qui.
Niente leader di Taiwan ai funerali di Bergoglio
La Cina si dice comunque "disposta a compiere sforzi congiunti per promuovere il continuo miglioramento delle relazioni". Ma ora molto dipende dai prossimi passi del Vaticano. Un primo test è in arrivo già sui funerali di sabato. Pechino osserva con attenzione chi farà parte della delegazione di Taipei, dove negli scorsi anni è stato osservato con sgomento il processo di avvicinamento di Bergoglio alla Cina. Nel 2005, l'allora presidente taiwanese Chen Shui-bian partecipò ai funerali di Wojtyla. Nel 2013, Ma Ying-jeou era presente all'inaugurazione di Bergoglio. Stavolta, Lai Ching-te non ci sarà. Per qualche giorno serpeggiava il dubbio, ma ieri pomeriggio Taipei ha confermato che la delegazione sarà guidata dall'ex vicepresidente Chen Chien-jen. Potrebbe aver inciso la volontà del Vaticano di non irritare Pechino, ma tirerà forse un sospiro di sollievo anche Giorgia Meloni, che può così evitarsi un potenziale caso diplomatico.
Ne ho scritto qui.