Dazi Usa e reazione cinese, Yoon rimosso, esercitazioni intorno a Taiwan
Racconti dall'Asia orientale
Settimana densa e spesso drammatica in Asia. Mentre ancora non c’è un bilancio definitivo del devastante terremoto che ha colpito il Myanmar, negli scorsi giorni in una rapida successione di eventi si sono registrate nuove turbolenze intorno a Taiwan, il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol è stato definitivamente rimosso e si è arrivati a una rischiosa escalation nella battaglia dei dazi. Una panoramica.
“Il giorno della liberazione”
34% per la Cina, 32 per Taiwan, 25 per la Corea del Sud, 24 per il Giappone. Addirittura 46% per il Vietnam.
Il giorno della liberazione assomiglia a una condanna, in Asia. I dazi di Donald Trump colpiscono indiscriminatamente tutti, da quelli che Washington vede come nemici a quelli che ha sempre visto come amici. È così che funziona il protezionismo, d'altronde. Principale bersaglio, ça va sans dire, la Cina. Dopo i due round da 10% ciascuno di febbraio e marzo, imposto un ulteriore 34%. A Pechino si aspettavano di arrivare a un totale del 40% e invece siamo al 54%, appena sotto quel 60% minacciato da Trump in campagna elettorale.
"Cedere o fare concessioni significa rendere più forte il bullismo americano", scrivono i media cinesi, auspicando una risposta comune.
Rabbia anche nei Paesi alleati di Washington. Il Giappone ha definito i dazi "estremamente deplorevoli". Tokyo proverà a trattare esenzioni o riduzioni, magari fissando delle quote massime per l'export come aveva fatto al culmine della rivalità tecnologica degli anni Ottanta. Ma non si escludono ripercusioni più ampie, visto che il Giappone è il primo investitore diretto estero negli Stati Uniti.
Sgomento in Corea del Sud, dove l'economia è molto legata alle esportazioni e dove si recrimina per il trattamento ricevuto dopo che si è molto rafforzata l'alleanza militare e commerciale con Washington.
Ancora peggio a Taiwan, dove il governo aveva giustificato il recente maxi investimento da 100 miliardi di dollari del colosso dei chip TSMC negli Stati Uniti come un modo per evitare i dazi. Non è bastato. E, viste le rivendicazioni cinesi, Taipei non può nemmeno ribilanciare le sue relazioni con Pechino come stanno facendo Tokyo e Seul.
Colpiti anche i Paesi del Sud-Est asiatico, che erano usciti vincitori dalla prima guerra commerciale, attraendo investimenti e linee produttive in uscita dalla Cina. In primis il Vietnam, che negli scorsi giorni aveva tagliato i dazi sui prodotti degli Stati Uniti e aveva dato il via libera all'ingresso di Starlink. Il Paese è quello che ha forse più da perdere, compreso lo status di hub globale che si è guadagnato in questi anni. Ecco perché la Borsa di Hanoi, perdendo il 6,7%, è stata la peggiore in Asia subito dopo l’annuncio dei dazi.
Ne ho scritto qui e parlato qui (dal minuto 11.50).
“Il giorno della punizione”
Dopo il "giorno della liberazione" di Donald Trump, sui social media cinesi erano apparsi diversi appelli al governo di Pechino per dare il via al "giorno della punizione". Si sapeva che la Cina avrebbe reagito in modo duro, per non mostrarsi debole e intimorita di fronte al primo rivale commerciale e strategico, ma non si conosceva l'entità delle ritorsioni. E sul tempismo, quasi tutti scommettevano sul 9 aprile, con un pacchetto di contromisure annunciato subito dopo l'entrata in vigore dei dazi imposti dalla Casa Bianca, come accaduto nei due round precedenti di febbraio e marzo. Potrebbe aver influito un calcolo sull'eventuale contraccolpo sui mercati finanziari, visto che le borse cinesi erano chiuse venerdì 4 aprile per le festività del Qingming, la festa degli antenati.
In precedenza, Pechino aveva predisposto ritorsioni mirate, colpendo singoli settori dell'economia statunitense come petrolio, gas e agroalimentare. Una scelta al ribasso, rispetto ai dazi omnicomprensivi di Washington. Stavolta si è scelta l'opzione dell'escalation. Troppo vicino quel 54% totale di tasse aggiuntive al 60% minacciato da Trump in campagna elettorale, per esercitare moderazione. Da qui il 34% generalizzato, percentuale del tutto allineata a quella annunciata del presidente degli Stati Uniti.
Contestualmente, Pechino ha presentato un ricorso all'Organizzazione mondiale del commercio, definendo i dazi di Trump come una pratica di bullismo unilaterale che mette a repentaglio la globalizzazione. Non è tutto. La Cina ha sospeso le autotizzazioni all'export di sei aziende statunitensi, inserendone altre 11 alla lista nera delle entità inaffidabili. Avviate indagini anti dumping e anti monopolio contro i tubi medicali e contro il colosso chimico DuPont. Da ultimo, il governo cinese ha anche vietato l'esportazione di alcuni prodotti legati alle terre rare, una leva importante per Pechino, che gode di una posizione dominante su diversi metalli cruciali per l'industria tecnologica verde.
Non è escluso che si possa aprire un negoziato di cui ancora non si vedono i contorni. Ma Xi Jinping ha scelto di provare a mostrarsi forte e pronto a combattere una guerra commerciale che avrebbe voluto evitare.
Ne ho parlato qui (dal minuto 2.12) e scritto qui, con qualche dato sull’interscambio Cina-Usa.
Corea del Sud, rimosso Yoon
"La destituzione è confermata all'unanimità". È il momento in cui la Corte costituzionale annuncia il suo verdetto: Yoon Suk-yeol non è più il presidente della Corea del Sud. A Seul, migliaia di persone radunatesi per strada esultano davanti ai maxi schermi.
121 giorni dopo la terribile notte tra il 3 e il 4 dicembre scorsi, il responsabile della prima legge marziale imposta in tempi democratici è stato ufficialmente rimosso, con l'impeachment approvato dal parlamento che diventa così definitivo. La Corte costituzionale ha stabilito che i poteri di emergenza usati da Yoon non erano giustificati. Decisive le prove secondo cui il presidente aveva ordinato ai militari di fare irruzione nel parlamento e trascinare fuori i deputati, impedendo il voto con cui è stata approvata la richiesta di rimozione della legge marziale.
"Azioni contrarie ai principi costituzionale", dicono i giudici, che nei 23 minuti di lettura del dispositivo hanno riconosciuto il ruolo cruciale della resistenza civile nel mantenimento della democrazia del Paese. Yoon ha seguito la sentenza dalla residenza presidenziale, che dovrà abbandonare entro qualche giorno.
Ora c'è da far fronte al grande clima di tensione in cui è sprofondato il paese. La Corte costituzionale è presidiata da circa settemila agenti di polizia, tra barricate e filo spinato. Ma, almeno per ora, il minacciato assedio dei sostenitori di Yoon che faceva temere una Capitol Hill in versione sudcoreana, non c'è stato.
Entro 60 giorni si terranno le elezioni presidenziali anticipate, con favorita l'opposizione progressista guidata da Lee Jae-myung, conosciuto come il "Bernie Sanders sudcoreano". Una sua vittoria cambierebbe profondamente le politiche sociali e la postura internazionale della Corea del Sud, riequilibrando i rapporti tra Stati Uniti e Cina.
Ne ho parlato qui (dal minuto 5.25). In arrivo nei prossimi giorni un lungo approfondimento.
Esercitazioni intorno a Taiwan
La retorica con cui è stato annunciato il nuovo round di esercitazioni è stata particolarmente enfatica. Sono stati diffusi diversi video o grafiche che prendono di mira direttamente Lai, definendolo un "parassita che avvelena Taiwan", portandola verso la "distruzione". In un caso, la caricatura del presidente taiwanese emerge dal sottosuolo nei pressi della città di Tainan, città dove era stato sindaco e tradizionale bastione filo indipendentista, per poi diffondersi insieme al colore verde come una sorta di "virus" verso il nord dell'isola, colorato di blu. I colori non sono casuali. Il verde rappresenta tradizionalmente il Partito Progressista Democratico (DPP) al governo, mentre il blu caratterizza l'opposizione del Kuomintang (KMT), che ha posizioni dialoganti con Pechino. Non è una sorpresa, visto che in passato media e funzionari cinesi hanno definito più volte il DPP come un "tumore" che si diffonde su Taiwan, promuovendo quella che il Partito Comunista Cinese chiama "desinizzazione". In altro materiale di propaganda, appaiono inusuali riferimenti alla politica interna taiwanese, in cui si sostiene che la democrazia dell'isola sia una sorta di "dittatura mascherata" sotto il segno del "terrore verde", con riferimento al "terrore bianco". Vale a dire la lunga era della legge marziale.
La tendenza alla personalizzazione era meno marcata durante l'amministrazione di Tsai Ing-wen, ex leader dello stesso partito di Lai ma attestata su posizioni più moderate. Concentrarsi sulla figura di Lai è funzionale agli scopi di Pechino per diverse ragioni. Primo: ribadisce ai taiwanesi che il problema è lui e che qualora si scegliessero un altro leader i rapporti sarebbero migliori. Secondo: comunica ai cinesi continentali che il progetto di riunificazione con Taiwan sta andando avanti e se ancora non si è compiuto è responsabilità di un "piccolo gruppo" di indipendentisti. Terzo: segnala all'esterno che Lai è un "piantagrane" che costringe Pechino a erodere lo status quo. La realtà è più complicata, ma tutto questo serve al Partito comunista per rivendicare il controllo di tempistiche e modalità di "risoluzione" del "problema".
Ne ho scritto qui. Nei prossimi giorni in arrivo un lungo approfondimento sul tema. Della questione Taiwan ho parlato anche nel ciclo “China Issues” della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, durante un incontro introdotto da questa breve intervista.