Elezioni Taiwan: il racconto del weekend elettorale, interviste e analisi
Da Taipei. Con racconti, analisi, interviste e scenari. E la prospettiva di Pechino secondo Da Wei.
Prima analisi del voto
Domenica 14 gennaio, il giorno dopo le elezioni presidenziali e legislative, ho fatto una chiacchierata di 30 minuti circa con Francesco Radicioni da Taipei. Si ascolta qui.
Qui di seguito invece uno stralcio di un’analisi pubblicata qui.
La versione più semplice, e semplicistica, è che Taiwan ha detto un no definitivo alla Cina e rischia di avvicinarsi a un conflitto. La realtà è però che non sarà il risultato delle elezioni presidenziali e legislative di ieri a decidere se il futuro sarà di guerra o di pace, nonostante la retorica della campagna elettorale. O almeno, non soltanto.
L'esito emerso dalle urne, con la vittoria del tradizionalmente filo indipendentista Lai Ching-te del Partito progressista democratico (DPP), è frutto di una serie di fattori interni e contingenti che quantomeno nella mente dei taiwanesi poco avevano a che fare con la Cina continentale. Il primo elemento importante da tenere in mente è che Lai ha profondamente smussato le sue posizioni.
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Porsi in perfetta linea con la posizione centrista della presidente uscente Tsai Ing-wen ha consentito a Lai di allontanare qualche timore tra l'elettorato taiwanese, nonostante il leader eletto continui a essere ritenuto più "imprevedibile". Importante allora il ruolo giocato dalla futura vicepresidente, Hsiao Bi-khim. Si tratta dell'ex rappresentante di Taipei negli Stati Uniti ed è considerata la vera erede di Tsai. Non solo, anche Washington anela a un'autorità taiwanese stabile e soprattutto "prevedibile" (leggasi niente sorprese sull'indipendenza) e il fatto che Hsiao sia un volto ben conosciuto dall'amministrazione Biden viene considerata una garanzia.
L'altro elemento decisivo sulla vittoria di Lai è stata la frammentazione dell'opposizione. Tradizionalmente, alle presidenziali taiwanesi i contendenti sono due: il candidato del DPP e quello del Kuomintang (KMT, il più dialogante con Pechino). Dopo la vittoria schiacciante del KMT alle elezioni locali del novembre 2022, costruito su temi prettamente interni e locali, l'ennesima sfida a due avrebbe potuto favorire l'opposizione. Ma stavolta c'è stato un "terzo incomodo" molto serio, il Partito popolare di Taiwan (TPP) di Ko Wen-je. Ex chirurgo ed ex sindaco di Taipei, si è proposto come una "terza via pragmatica e anti ideologica". Piuttosto che dei rapporti con la Cina continentale, su cui ha comunque rivendicato la necessità di riaprire il dialogo, durante la campagna ha parlato di temi molto concreti come il prezzo delle case, i salari minimi, l'occupazione e il dilemma energetico. Un approccio che ha convinto soprattutto i più giovani. Il suo 26% alle presidenziali è risultato decisivo per impedire all'ex poliziotto Hou Yu-ih, il candidato del KMT giunto secondo col 33%, di insidiare più da vicino Lai.
La possibile candidatura unitaria tra Hou e Ko, annunciata a novembre e poi naufragata a 24 ore dalla presentazione delle liste, sarebbe stata ampiamente favorita. Il DPP ha infatti perso il 17% delle preferenze rispetto alle presidenziali del 2020, vale a dire oltre due milioni e mezzo di voti in meno. Una tendenza ancora più netta alle legislative, dove per la prima volta dopo otto anni il partito perde la maggioranza. Nella legislatura che prende il via il 1° febbraio, sarà il KMT il primo partito con 52 seggi, comunque meno dei 57 necessari per avere la maggioranza assoluta. La presidenza di Lai sarà dunque azzoppata sin dall'inizio e il DPP dovrà trattare con Ko (vero ago della bilancia degli equilibri parlamentari) sulle riforme e sul budget di difesa.
La vittoria di Lai resta storica, visto che è la prima volta che un partito ottiene tre mandati consecutivi, ma esaminato più a fondo il voto dei taiwanesi appare pragmatico e non radicale. Una tendenza che pare aver recepito anche la Cina, che nella sua prima reazione al voto ha sì ribadito che la "riunificazione è inevitabile", ma anche sottolineato che "stavolta il DPP non rappresenta l'opinione pubblica maggioritaria dell'isola". Una prospettiva che potrebbe portare Xi Jinping a pazientare ancora, sperando di fare leva sulle divisioni interne per avvicinare una "riunificazione pacifica" che, guardando l'orgoglio con cui i taiwanesi si recavano ieri ai seggi per votare il candidato preferito, resterà comunque difficile da ottenere.
Ne ho scritto qui.
Il giorno del voto
"Se adesso ho paura di una guerra? No, se mai ci sarà una guerra ci sarà e basta. Non si farà per quello che è successo oggi". Chi-hui scuote i capelli bianchi e infila la bandierina rosa nel cestino della bicicletta. Sullo sfondo si canta "Lai Ching-te dongsuan", "eletto". Lai è il nuovo presidente, proprio lui che la Cina ha definito a più riprese un "secessionista radicale". Proprio lui che secondo il Kuomintang (KMT), l'opposizione dialogante con Pechino, rischia di portare Taiwan verso un conflitto.
Lai ribalta la questione, mandando un messaggio a Pechino. "Il primo significato della mia vittoria è che Taiwan dice al mondo che tra democrazia e autoritarismo, noi scegliamo di stare dalla parte della democrazia", dice nelle sue primissime parole da presidente eletto. Tra la folla che lo ascolta dominano il verde e il rosa, ma anche l'arcobaleno che ricorda che Taiwan ha legalizzato per prima in Asia i matrimoni tra persone dello stesso sesso, nel 2019. Un ragazzo in canottiera gialla tiene invece nelle mani due bandiere, quelle di Ucraina e Israele. Un modo per mostrare alterità dalla Cina continentale anche sul posizionamento in merito alle crisi internazionali.
"Io comunque per il parlamento ho votato il Kuomintang per bilanciare la situazione", dice ancora Chi-hui, mentre sta già iniziando a pedalare verso casa. Testimonianza del fatalismo, ma anche del pragmatismo, con cui i taiwanesi sono andati alle urne.
Prosegue su La Stampa di domenica 14 gennaio
Racconti live nel giorno del voto anche qui (dal minuto 11.15) e qui (dal minuto 19).
Il giorno dopo il voto
La festa di una scuola elementare, gli anziani che fanno esercizi al parco. Il giorno dopo la vittoria del filo indipendentista Lai Ching-te alle elezioni presidenziali, a Taiwan non c'è un clima da resa dei conti. Complice una bella e non così usuale domenica di sole, le strade di Taipei sono piene. Nessuna tensione tra i sostenitori dei diversi partiti, nessun timore apparente per la reazione cinese.
Eppure sopra Taiwan si muovono, in modo diverso, le due grandi potenze Cina e Stati Uniti. Oggi il ministero degli Esteri cinese ha usato toni aggressivi per criticare il messaggio del segretario di stato Antony Blinken, che si è congratulato con lai per la vittoria e con il popolo taiwanese per la forza del loro sistema democratico.
Pechino parla di sostegno all'indipendenza di Taiwan, nonostante ieri Joe Biden avesse garantito il contrario, e ha presentato severe rimostranze a Washington. Proprio questa sera è peraltro arrivata a Taipei una delegazione di ex alti ufficiali inviata dalla Casa Bianca.
Ne ho parlato su RSI, continua qui
Qui un altro commento sull’esito del voto
La vigilia del voto
Alla vigilia del voto avevo fatto due interviste dai quartieri generali dei due principali partiti, DPP e KMT. Ne metto qui sotto i due brevi incipit, si trovano complete su La Stampa di sabato 13 gennaio.
Bandierine arcobaleno e giubbotti verdi con la scritta "Team Taiwan". C'è fermento nel quartier generale del tradizionalmente filo indipendentista Partito progressista democratico (DPP), ironicamente situato su Beiping East Road, dal nome di Pechino durante la dinastia dei Ming. "Lai Ching-te ha assicurato più volte che manterrà lo status quo", dice Vincent Chao, a capo delle relazioni internazionali e della campagna elettorale del candidato presidente più odiato da Pechino. “Taiwan continuerà a mantenere lo status quo. Non provocheremo la Cina ma non faremo nemmeno passi indietro sui nostri principi come democrazia, libertà e rispetto dei diritti umani”.
L'approccio del DPP nei rapporti con Pechino ha quattro pilastri. Primo: rinsaldare la deterrenza attraverso il rafforzamento delle nostre difese. Secondo: aumentare la resilienza della nostra economia partecipando alle catene di approvvigionamento democratiche. Terzo: mantenere le nostre partnership internazionali. Quarto: garantire una linea stabile e pragmatica, aperta al dialogo.
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"Per la pace e per la stabilità". Recitano così i grandi manifesti appesi che adornano uno degli uffici del Kuomintang. Un po' ovunque ecco le bandiere con cielo blu, sole bianco e terra rossa della Repubblica di Cina, fondata da Sun Yat-sen e "trasportata" da Chiang Kai-shek a Taiwan dopo la sconfitta nella guerra civile contro Mao Zedong. In vista delle elezioni di domani, il KMT sostiene che i taiwanesi si trovino di fronte a una scelta tra guerra e pace. "Ma è uno slogan elettorale più semplice da comunicare, io dico che la scelta è tra altri 4 anni di febbre alta e 4 anni di parziale guarigione", dice Alexander Huang, capo delle relazioni internazionali del partito e suo rappresentante negli Stati Uniti.
Bisogna capire che noi non accettiamo l'agenda unilaterale di Xi. Rispettiamo il "consenso del 1992", che afferma l'esistenza di una unica Cina ma con diverse interpretazioni. Il DPP fa credere che sia la stessa cosa di accettare "un Paese, due sistemi" di Hong Kong, ma non è così. Quest'ultimo è un modello unilaterale immaginato da Pechino per il post riunificazione. Il consenso del 1992 è invece una base da cui entrambe le parti possono partire per negoziati da condurre prima di eventuali accordi politici. Far credere che siano la stessa cosa rende più facile a Xi imporre la sua linea, anche retorica, su Taiwan.
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La prospettiva di Pechino: intervista a Da Wei
“Ci sarà senz'altro un impatto sulla stabilità dei rapporti tra le due sponde dello Stretto. Questo non significa, però, che l'esito possa sicuramente significare guerra o pace. Il fatto che l'indipendenza di Taiwan significa guerra è una politica che la Cina porta avanti da tempo. Se il vincitore intraprenderà una linea politica che volge all’indipendenza di Taiwan, il rischio di un conflitto aumenta sensibilmente. Ma se nulla di ciò accade le probabilità di avere la pace sono più alte. Semplificando, credo che "pace e guerra" siano descrizioni di una prospettiva futura di medio-lungo termine e che non possano essere previsioni per il breve periodo”.
“La riunificazione pacifica non sembra molto possibile nel breve periodo, ma da sempre è stata considerata un obiettivo di lungo termine, non un qualcosa da realizzare nella prossima manciata di anni. Nel giro di 30 anni si è passati da una maggioranza che sosteneva la riunificazione a una che sostiene il mantenimento dello status quo e non auspica la riunificazione. Chi può dire con certezza che tra altri 30 anni la volontà popolare non cambierà di nuovo? Se solo l’autorità dell’isola non intraprende politiche estremiste, la speranza di una riunificazione pacifica continua a esistere. Secondo la "legge anti-secessione" della Cina, "l’esaurimento totale delle condizioni per la riunificazione pacifica" è una delle tre fattispecie in cui Pechino può ricorrere all’uso della forza. Spero che Lai possa intraprendere politiche pragmatiche. Tra lui e Tsai Ing-wen esistono, probabilmente, delle differenze caratteriali che potrebbero portare a uno stile di governo differente e a una situazione pericolosa soprattutto nella seconda parte del suo mandato, in particolare nel periodo in cui sarebbe interessato a ottenere una rielezione”.
“Se l’autorità di Taiwan riconosce il consenso del 1992, fornisce una base per il dialogo per i contatti e gli scambi tra le due sponde e le relazioni possono andare verso una linea di distensione. Il principio "un Paese, due sistemi" è un punto fondamentale per realizzare la riunificazione, ovviamente auspichiamo che le autorità di Taiwan possano accettarlo, ma non è assolutamente la premessa per i contatti e i rapporti tra le due sponde”.
Continua su La Stampa di domenica 14 gennaio
Scenari militari
Che farà la Cina dopo le elezioni di Taiwan? È forse la domanda più ricorrente, soprattutto degli osservatori internazionali che temono l'apertura di un terzo fronte dopo Ucraina e Medio oriente. Lin Ying-yu, esperto di difesa della Tamkang University di Nuova Taipei, prova a tracciare qualche scenario. "Di certo ci saranno manovre di jet e navi sullo Stretto e potrebbero essere messe in atto altre mosse simboliche come il passaggio di una portaerei nei pressi di Taiwan", dice Lin. "Si tratta d'altronde del new normal che Pechino ha annunciato dopo la visita a Taipei di Nancy Pelosi nell'agosto 2022. Ma non mi aspetto esercitazioni così vaste come quelle di allora, anche perché i mezzi cinesi hanno regolarizzato la loro presenza nella regione".
Non credo ci saranno immediatamente grandi manovre militari. Verranno utilizzati altri strumenti per concentrarsi su Taiwan, come una serie di misure commerciali come l'abolizione delle agevolazioni tariffarie per le importazioni dei prodotti taiwanesi o altre sanzioni. Per il Partito comunista cinese sarà molto importante osservare la fase di transizione che si aprirà da domani e durerà fino al 20 maggio, quando ci sarà l'insediamento del nuovo presidente. Saranno osservati con attenzione i movimenti e le parole del vincitore delle presidenziali, su tutte quelle che pronuncerà nel suo discorso di inaugurazione. In particolare se vincerà Lai, la fase dell'insediamento potrebbe essere delicato.
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