Chi è Ishiba
C'era ormai chi lo chiamava il "candidato eterno". Ci aveva provato quattro volte, Shigeru Ishiba, a farsi eleggere presidente del Partito liberaldemocratico e di conseguenza premier del Giappone. Per quattro volte aveva fallito. Sempre sconfitto dall'ex premier Shinzo Abe, osteggiato dalla potentissima fazione del leader più longevo degli ultimi decenni. Persino dopo che lo stesso Abe si era ritirato, quando nel 2020 gli fu preferito l'anonimo Yoshihide Suga pur di non confermare le speranze di Ishiba, convinto che fosse giunto il suo momento.
Stavolta, ci aveva provato quasi per inerzia. Cosciente che la storica logica delle fazioni era ormai stata diluita in una miscela imprevedibile, dopo che il premier uscente Fumio Kishida è stato costretto a dissolverle quasi tutte, estremo tentativo (non riuscito) di salvarsi da un maxi scandalo sui finanziamenti che ha travolto il partito che governa il Giappone quasi ininterrottamente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
"È la mia battaglia finale", ha detto Ishiba, poco dopo aver annunciato la sua quinta e ultima candidatura. Almeno all’inizio e pur apprezzandolo, l'opinione pubblica gli preferiva Shinjiro Koizumi, figlio dell'ex premier Junichiro. Coi suoi 43 anni e il suo lungo curriculum di ostilità al sistema delle fazioni, era visto come un segnale di cambiamento. Kishida gli preferiva Toshimasa Hayashi, l'ex segretario degli Esteri visto come l'unico vero nome in continuità col leader uscente, tanto impopolare in Giappone quanto apprezzato in Occidente per il suo deciso avvicinamento a Stati Uniti e Nato. I vecchi adepti di Abe e la fazione dell'ex premier Taro Aso, l'unica rimasta ufficialmente in piedi, gli preferiva invece Sanae Takaichi. Ex batterista heavy metal ed ex presentatrice televisiva, l'ultranazionalista ministra della Sicurezza Economica era da tempo indicata come l'erede di Abe dopo essere diventata il punto di riferimento dell'ala destra più radicale del partito.
Eppure, ha vinto lui. Forse perché ha un po' di tutto. Non è amato nel partito per il suo approccio critico e per il passato nelle file riformiste, in tempi in cui l'iper conservatorismo è spesso stato un valore. Ma comunque, percepito come un "prodotto del sistema". Non è un incantatore di folle, ma è comunque popolare presso l'opinione pubblica e le fazioni locali. Non è perfettamente in linea con Kishida in politica estera, ma è comunque più prevedibile e pragmatico di Takaichi.
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Qui il racconto audio della giornata che lo ha visto vincere il voto interno al Partito liberaldemocratico (dal minuto 11.40 circa).
La politica estera
La vittoria di Ishiba dimostra che la "dittatura" delle fazioni è stata picconata dallo scioglimento ordinato da Kishida dopo il maxi scandalo sui finanziamenti, causa principale delle sue dimissioni. Ma è anche un segnale che il baricentro del partito si è spostato verso il centro, pur mantenendo una linea molto dura sulla Cina. Cristiano protestante, al contrario del predecessore Ishiba si oppone all'utilizzo del nucleare per la transizione energetica. Vuole abolire l'antica legge che impone ai coniugi di adottare lo stesso cognome e tra le priorità ha indicato la gestione dei disastri climatici e l'emergenza demografica.
Le sorprese maggiori possono arrivare dalla politica estera. Pur sostenendo l'alleanza con gli Stati uniti, Ishiba la ritiene troppo squilibrata e vuole ridefinirla. La proposta di una Nato asiatica è vista come fumo negli occhi da Pechino. Nel mirino non c'è però solo l'ingombrante vicino, ma anche la ricerca di un certo grado di autonomia strategica dagli Usa. Desiderio destinato ad aumentare qualora alla Casa bianca torni Donald Trump. Per riuscirci, Ishiba persegue anche la revisione della costituzione pacifista imposta dal generale Douglas MacArthur nel 1947.
Possibile qualche frizione con l'alleato. E ovviamente più di una tensione con la Cina. Chi lo conosce scommette che da premier adotterà una linea più pragmatica. Ma lo scorso mese Ishiba ha preannunciato la sua candidatura durante una visita a Taiwan. Non proprio un gran viatico, agli occhi di Pechino.
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Cosplay di Dragon Ball
Sui social giapponesi è tornata virale una foto di qualche anno fa, che lo ritrae con in mano un microfono ma soprattutto travestito da Majin Bu. Per chi non lo sapesse, si tratta di un personaggio di Dragon Ball, famigerata serie manga che ha fatto successo in Italia anche nella veste di cartone animato.
Il motivo? La partecipazione all'inaugurazione di un museo di figurine di personaggi dei fumetti popolari nella sua prefettura natale.
Ne ho scritto qui.
Il bazooka di Xi Jinping
Xi Jinping impugna il bazooka. Basta tentennamenti e rinvii. La Cina mette a punto un ampio pacchetto di stimoli alla sua economia, in tempo per provare a regalarsi un compleanno più sereno. Già, perché il 1° ottobre la Repubblica popolare cinese fondata da Mao Zedong nel 1949 compie 75 anni. Un numero tondo che il Partito comunista non vuole vedere offuscato dalle fosche ombre di un rilancio post Covid ancora zoppicante.
Fiducia scarsa, consumi deboli, rischi di deflazione, crisi immobiliare e disoccupazione giovanile. Alcuni degli attuali ingredienti del menù economico cinese che producono due rischi di difficile digestione per il governo cinese. Il primo, più immediato: il possibile fallimento nel raggiungere l’obiettivo di crescita del pil fissato per il 2024, vale a dire il 5%. Il secondo, più di prospettiva: la difficoltà nell’accelerare il processo di transizione del modello di sviluppo, che nei piani di Xi dovrebbe ridurre la dipendenza dalle esportazioni.
Un antidoto alle turbolenze globali, ma anche alle sanzioni e ai dazi imposti dall’occidente. Per riuscirci, le coordinate da seguire sono principalmente tre: stimolare le nuove forze produttive, perseguire un grado maggiore di autosufficienza tecnologica e ridurre i rischi debitori. Ma la trasformazione da fabbrica del mondo a società di consumi ad alta qualità rischia di restare incompiuta senza la fiducia di cittadini e imprese.
Ed ecco allora che, secondo Bloomberg, la Cina sta per iniettare fino a 1 trilione di yuan (circa 142 miliardi di dollari) nelle sue grandi banche statali per aumentare la loro capacità di sostegno all’economia. Il tutto solamente due giorni dopo che la banca centrale ha presentato il suo più aggressivo allentamento monetario dopo la pandemia, annunciando tagli a un’ampia gamma di tassi d’interesse e un’iniezione di liquidità nel sistema finanziario. I finanziamenti proverrebbero principalmente dall’emissione di nuove obbligazioni sovrane speciali, in una mossa pressoché inedita per Pechino sin dai tempi della crisi finanziaria globale del 2008. Coinvolti i sei principali istituti di credito del paese, nonostante abbiano meno bisogno di liquidità rispetto alle banche più piccole. Sono però loro ad avere la possibilità di un’azione più ampia e incisiva a sostegno dell’economia cinese.
Non è finita. Il segnale politico più importante del fatto che il Partito fa sul serio è arrivato dalla riunione mensile del Politburo, chiusa ieri e presieduta da Xi. Inusualmente per il mese di settembre, il focus è stato appunto la situazione dell’economia. Il risultato è l’impegno a distribuire la “spesa fiscale” necessaria a mantenere gli obiettivi di crescita e sviluppo sociale per il 2024.
“È necessario emettere e utilizzare titoli di stato speciali a lungo termine per sfruttare meglio il ruolo degli investimenti pubblici. Il coefficiente di riserva obbligatoria dovrebbe essere abbassato e dovrebbero essere attuati tagli sostanziali ai tassi di interesse”, si legge nel documento finale. Non si fanno numeri precisi, ma secondo Reuters sarebbero pronti circa 284 miliardi di dollari di bond sovrani, con una fetta considerevole rivolta allo stimolo dei consumi.
In altri due passaggi rilevanti, ci si impegna a “stabilizzare il mercato immobiliare” e a “rilanciare il mercato dei capitali”. Due segnali cruciali a consumatori, settore privato e ambienti finanziari. La crisi immobiliare è in parte dovuta alle linee rosse tracciate alcuni anni fa dal governo, volte a cambiare il modello ad alta esposizione debitoria adottato in modo sregolato dai colossi del settore, Evergrande in testa. Un ruolo più diretto dello stato può interrompere un effetto domino che l’anno scorso ha iniziato a toccare anche i fondi fiduciari, favorendo allo stesso tempo una ripresa degli acquisti con il taglio dei tassi di interesse.
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