Summit Brics e allargamento del gruppo, economia cinese, Fukushima
Racconti dalla settimana asiatica
Sembrava destinato a restare un passaggio interlocutorio, in attesa di tempi migliori. Anche perché durante il suo svolgimento è successo un po' di tutto. Prima l'allunaggio della navicella indiana, puntuale successo per Narendra Modi, poi lo schianto di Evgenij Prigozhin. E invece il summit dei Brics di Johannesburg ha partorito la montagna: il gruppo si allarga. Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica accoglieranno dal 1° gennaio 2024 sei nuovi membri: Argentina, Arabia saudita, Emirati arabi uniti, Iran, Egitto ed Etiopia. Una costellazione di paesi variegata, la cui effettiva unità d'intenti è tutta da dimostrare.
La loro individuazione tra i 23 candidati è frutto di un compromesso tra la Cina, che spingeva da tempo per espandere il gruppo senza troppi tentennamenti, e gli altri membri. Una spinta aumentata col salto di qualità nella competizione con gli Stati uniti. Dopo la guerra in Ucraina, anche la Russia ha intensificato la pressione per ammettere nuovi paesi, per mostrare di non essere isolata. Obiettivo almeno formalmente riuscito. E peraltro il summit del 2024, il primo a 11, si svolgerà proprio in Russia, a Kazan. India, Brasile e Sudafrica hanno rapporti fluidi con l'occidente e avevano sin qui rallentato per non lasciare intravedere nei Brics una proiezione geopolitica o strategica che finora non hanno avuto.
I nuovi Brics allargati "acquistano" 3 mila miliardi di dollari di Pil e arrivano a quota 30 mila miliardi, il 36% del Pil globale. Due terzi dei 45 mila miliardi del G7, ma con possibili altri innesti futuri. Già ora, con 3,7 miliardi di abitanti, hanno il 47% della popolazione. I nuovi membri contano il 3,7% globale delle esportazioni e il 3% delle importazioni. Il salto sul commercio è moderato, ma quello sull'energia è esponenziale. Attualmente, i membri dei Brics rappresentano circa il 20% della produzione globale di petrolio. Con l'aggiunta di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Iran si balza al 42%.
Parlare di "nuovo ordine" potrebbe però essere prematuro. La Cina esporta di più verso l'Unione europea che verso i Brics allargati, che pesano il 14% delle spedizioni di Pechino. A conferma di una infrastruttura commerciale che da sola non può bastare a operare una dedollarizzazione, tema rimandato ai prossimi vertici se si eccettua l'invito ad aumentare l'uso delle proprie valute nazionali negli scambi. Le differenze tra istanze e necessità dei paesi membri, acuite dall'allargamento, potrebbero anche creare quella che Lula ha definito "torre di Babele".
La dichiarazione congiunta finale, che utilizza molti concetti della retorica cinese con un parziale smussamento indobrasiliano, è priva rispetto a quella del 2022 dell'impegno universale a rispettare la sovranità e l'integrità territoriale di tutti gli stati. Viene però ribadita la necessità di arrivare a una soluzione pacifica di tutti i conflitti in corso attraverso il dialogo. Reiterata più volte la rilevanza del G20, di cui i Brics ospitano peraltro i prossimi tre vertici: India a settembre, Brasile nel 2024 e Sudafrica nel 2025.
Resta irrisolto il nodo dei rapporti tra Cina e India. Nonostante ci si attendesse un bilaterale tra Xi e Modi (sarebbe stato il primo in oltre tre anni dopo gli scontri al confine conteso), c'è stato solo un "breve scambio informale" documentato dai media indiani. Il rapporto tra i due giganti asiatici è decisivo per il futuro della "famiglia" dei Brics e per capire se il gruppo saprà, o vorrà, anche diventare blocco.
Ne ho scritto qui e qui (in collaborazione con Simone Pieranni).
Allargamento dei Brics: interviste a Cabestan e Kewalramani
Jean-Pierre Cabestan, senior researcher dell'Asia Centre di Parigi e celebre sinologo di base a Hong Kong.
Professor Cabestan, crede che questa espansione renderà i Brics più forti?
Sì e no. Sì, perché i nuovi Brics ora rappresentano una quota maggiore del PIL mondiale. Ma no, perché è già difficile trovare un accordo su questioni importanti quando si hanno cinque Paesi ed economie molto diverse tra loro. Sarà ancora più difficile ora che si è in undici. L'Argentina, l'Egitto, l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e l'Etiopia aggiungono molta diversità, sia come livello che strutture di sviluppo economico, ma anche di background sociale, religioso e culturale. Nonchè di sistema politico.
Come pensa che siano stati scelti i nuovi membri Un'espansione troppo grande senza una struttura forte potrebbe rischiare di trasformare i Brics in qualcosa di simile a una "torre di Babele"?
L'Argentina è stata ammessa per accontentare il Brasile e Lula, che ha insistito per avere un altro Paese latinoamericano. L'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti per il loro petrolio: questo faciliterà una possibile de-dollarizzazione delle transazioni e delle importazioni di petrolio per gli altri Brics, tra cui Cina e India. Anche l'Iran è entrato in parte per il gas naturale, ma è un Paese che sia la Cina che l'India sono d'accordo nell'accogliere (e anche la Russia), al contrario del Pakistan, candidato inviso a Nuova Delhi. L'Egitto e l'Etiopia sono membri importanti, il primo perché è sede della Lega Araba, la seconda perché sede dell'Unione Africana. Si tratta quindi di nazioni politicamente chiave, ma anche con grandi popolazioni (oltre 100 milioni) ed economie emergenti, che devono affrontare molteplici sfide. Entrambi hanno bisogno dell'aiuto degli altri Brics.
La Cina è il grande vincitore di questa espansione?
La Cina deve essere contenta perché è il Paese che ha spinto di più per l'allargamento, ma ha dovuto scendere a compromessi per quanto riguarda il Pakistan e deve tenere conto degli interessi degli altri Brics, in particolare dell'India e del Brasile, che non hanno intenzione di confrontarsi fortemente con l'Occidente, trasformando i Brics in un contrappunto al G7. Inoltre, nei Brics le decisioni vengono prese per consenso, quindi ci sono limiti a ciò che la Cina può ottenere.
Manoj Kewalramani è a capo del programma sull'Indo-Pacifico della Takshashila Institution, uno dei principali centri di ricerca dell'India. Considerato uno dei maggiori esperti asiatici di Cina.
Che cosa cambia con questa espansione? Quanto aumenta la forza dei Brics?
Aumenta senz'altro il valore del gruppo in termini di Pil e di produzione di petrolio. Ma questo allargamento cambia la natura di quello che i Brics avrebbero dovuto essere. Nonostante sin dall'inizio sia una costruzione politica artificiale più che un blocco, ora il gruppo avrà un'identità molto più inconsistente e sarà più difficile da gestire internamente. Per dirne una, hai messo insieme Iran e Arabia Saudita che ora si parlano, ma non si sa per quanto. Il più grande successo dei Brics era stato quello di creare un valore del loro marchio. Con l'espansione credo che il "brand" possa uscirne danneggiato.
Non c'è però la possibilità di un maggiore coordinamento all'interno del gruppo?
Non vedo come, anche perché è un gruppo non istituzionalizzato e senza una vera struttura. Si è tutti d'accordo quando la si prende alla larga: tutti chiedono che i paesi in via di sviluppo abbiano una voce più forte in una governance globale che è sbilanciata a favore dell'occidente. Ma poi non si è d'accordo su come intervenire. Su alcuni temi si può riuscire a trovare un coordinamento, ma in generale spesso l'accordo resta sul piano retorico, su quello pratico ognuno va per conto suo. Gli obiettivi che si vogliono raggiungere sono guidati dagli interessi nazionali e individuali, non dagli interessi di gruppo.
Il futuro dei Brics sembra collegato anche e soprattutto ai rapporti tra Cina e India. Qual è la prospettiva in merito?
C'è un alto livello di sfiducia. Basti guardare a com'è andata a Johannesburg. Prima ci hanno detto che Xi Jinping e Narendra Modi non si erano parlati, poi la Cina ha detto che c'è stato un "breve scambio informale" su richiesta indiana, infine l'India ha detto che c'è stato su richiesta cinese. I rapporti resteranno complicati per ragioni strutturali. Sono entrambe potenze emergenti con interessi incrociati e il tutto è complicato dalla competizione tra Cina e Usa. C'è poi l'irrisolta questione del confine conteso. La situazione resterà volatile a lungo.
Interviste complete qui e qui.
Il significato dei Brics per la Cina
Le persone che la pensano allo stesso modo non sono separate dalle montagne e dai mari. La Cctv, la televisione di stato cinese, introduce così il summit dei Brics a cui partecipa Xi Jinping. I media di Pechino stanno seguendo con grande enfasi il viaggio del presidente in Sudafrica. Con l'intensificarsi della competizione con gli Stati uniti, i Brics diventano d'altronde sempre più importanti per la Cina. Non un semplice acronimo per le economie emergenti, ma un manifesto politico di quel cosiddetto "sud globale" di cui Pechino vuole ergersi a capofila. L'interpretazione cinese è ben illustrata da quanto scritto ieri dal Quotidiano del Popolo: "La cooperazione dei Brics è un'innovazione che trascende l'approccio convenzionale delle alleanze politiche e militari, stabilendo un nuovo rapporto di partnership piuttosto che di alleanze". Un po' il modo in cui la Cina racconta la sua partnership con la Russia, sulla base dei "tre no": nessuna alleanza, nessun confronto e nessun obiettivo contro terzi. Non è tutto. Per il Quotidiano del Popolo, il modello Brics "trascende il vecchio pensiero di tracciare linee basate sull'ideologia e segue un nuovo percorso di rispetto reciproco e progresso comune. Si libera dal vecchio concetto di competizione a somma zero, abbracciando una nuova filosofia di mutuo beneficio e cooperazione win-win". Il riferimento agli Stati uniti è implicito ma chiarissimo. Infinite volte, negli ultimi anni, il governo cinese ha accusato Washington di promuovere una "mentalità da guerra fredda" e una logica di "confronto tra blocchi". Così la Cina racconta le varie iniziative americane in Asia-Pacifico: dal Quad ad Aukus, fino all'alleanza trilaterale con Giappone e Corea del sud rilanciata dal summit di Camp David di venerdì scorso. Non è un caso che, alla vigilia del vertice di Johannesburg, il ministro degli Esteri cinese abbia presentato una protesta formale contro la dichiarazione congiunta di Joe Biden, Fumio Kishida e Yoon Suk-yeol.
Pechino descrive le manovre statunitensi come atte a "seminare discordia tra la Cina e i suoi vicini", dunque portatrici di instabilità e potenzialmente di conflitti. Allo stesso tempo presenta se stessa come una potenza responsabile e garante di stabilità, nonostante le recenti tensioni strategiche e militari con diversi paesi della regione. Il summit dei Brics è un'occasione fondamentale per rafforzare questo racconto. Il sottotesto che emerge in realtà chiaramente: mentre Washington organizza "circoli ristretti" per contenerla, la Cina punta ad allargare le sue partnership. Non per motivi egoistici, prova a sostenere, ma per rendere più forte la voce di quel mondo in via di sviluppo che è stato spesso silenziato.
Ne ho scritto qui.
Country Garden prova a evitare il default
Si dice che Yang Huiyan e suo padre Guoqiang siano soliti essere accompagnati al quartier generale di Country Garden su due auto Maybach, lasciate parcheggiate all'esterno dell'edificio. Quantomeno in tempi migliori, quelli che per il primo sviluppatore immobiliare privato cinese sembrano ora giunti al termine. A Foshan, nella provincia meridionale del Guangdong, regna la preoccupazione per una crisi immobiliare che rischia di mietere la "vittima" più grande e inaspettata.
Il piano di Country Garden di estendere il periodo di grazia per il pagamento delle obbligazioni sta incontrando infatti diversi ostacoli. I detentori del bond onshore 16 Bi Yuan 05 dovrebbero decidere se concedere la dilazione in tre anni chiesta dall'azienda oppure no. Come parte del suo piano, Country Garden promette anche di impegnare il capitale di alcuni dei suoi progetti come garanzia. Stando a Caixin, però, molti degli obbligazionisti continuano a chiedere che il colosso paghi interamente il capitale e gli interessi entro il 2 settembre. A opporsi sarebbero i fondi privati, già in crisi di liquidità per l'ampia esposizione al settore immobiliare. Più favorevoli le banche statali che figurano nella lista dei creditori. Se prevalesse la linea intransigente, il default sarebbe inevitabile per Country Garden, che dopo aver evitato la prima fase della crisi immobiliare cinese ha accumulato circa 200 miliardi di passività. All'inizio del mese, l'azienda non ha pagato le cedole di due obbligazioni offshore. E il 14 agosto sono state sospese le negoziazioni di altre 11 obbligazioni onshore. La scelta sulla scadenza del 2 settembre potrebbe essere decisiva per innescare una reazione a catena di via libera o al contrario di rifiuti in serie di programmi simili sugli altri debiti.
Il debito nascosto dei governi locali cinesi
I dati ufficiali del ministero delle Finanze mostrano che i governi locali cinesi avevano circa 5100 miliardi di dollari di debiti alla fine di aprile. Ma, sostiene Caixin, migliaia di miliardi di dollari di prestiti delle amministrazioni locali sono costituiti da "debito nascosto". Secondo alcune stime, la cifra ufficiale sarebbe almeno da raddoppiare. Negli scorsi mesi è stata avviata anche un'indagine completa sui prestiti fuori bilancio degli enti locali. Il governo sta infatti provando a intervenire per limitare l'esposizione debitoria, ufficiale e nascosta. E così ridurre il rischio sistemico di un crollo del credito disponibile per l'economia reale.
Aumentano comunque gli elementi che lasciano intendere una certa urgenza nelle misure di sostegno, nonostante nei giorni scorsi sia stato pubblicato su Qiushi, la rivista teorica del Partito comunista, un discorso in cui Xi Jinping invita alla calma. "Dobbiamo mantenere la pazienza storica e insistere nel compiere progressi costanti e graduali", si legge nel discorso che Xi ha pronunciato nella metropoli di Chongqing a febbraio, ma la cui pubblicazione inedita in questo frangente segnala la volontà di inviare un messaggio: concentrarsi sugli obiettivi a lungo termine (tra cui miglioramento dell'assistenza sanitaria e messa in sicurezza dell'approvvigionamento alimentare) anche facendo fronte a difficoltà contingenti.
Ne ho scritto qui.
Inizia lo sversamento delle acque di Fukushima
Stavolta non è l'acquisto di isole contese, come nell'estate del 2012, ma il rilascio di acque di raffreddamento dei reattori di una centrale nucleare. Il risultato, a 11 anni di distanza, è lo stesso: i rapporti tra Cina e Giappone sono ai minimi termini. L'inizio delle operazioni di sversamento delle acque di Fukushima, teatro del disastro causato dal maremoto e tsunami del Tohoku del 2011, non arriva all'improvviso come le acquisizioni giapponesi nelle Senkaku, rivendicate da Pechino con il nome di Diaoyu. Stavolta, politica e opinione pubblica cinese erano già preparate e adeguatamente "riscaldate", tanto da sfociare in un forte riflusso antigiapponese. "Il Giappone ha ignorato l'opposizione della comunità internazionale, i diritti alla salute e allo sviluppo", ha detto ieri il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin, parlando di "comportamento estremamente egoista e irresponsabile" che "trasferisce il rischio di inquinamento al mondo intero". Tokyo sostiene che l'operazione non comporti rischi. A 12 anni di distanza dal disastro, le acque diluite e filtrate conterrebbero solo limitate tracce di trizio, un isotopo radioattivo dell'idrogeno. Subito dopo il rilascio, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) ha reso noti i risultati di un'analisi indipendente secondo cui la concentrazione di trizio sarebbe "molto inferiore al limite".
Ma Pechino fa leva sulle conclusioni di un precedente rapporto dell'Aiea, quello che dava il via libera allo sversamento e in cui si affermava che "gli scarichi delle acque trattate" avrebbero avuto "un trascurabile impatto radiologico sulla popolazione e sull'ambiente". Da qui l'accusa a Tokyo di usare l'oceano "come una fogna".
Dopo l'avvio dello sversamento, che durerà diversi anni, la Cina ha subito annunciato il divieto sulle importazioni di prodotti ittici. Un inasprimento di restrizioni in realtà già in vigore su 10 delle 47 prefetture nipponiche. La mossa può fare molto male, visto che Pechino è il principale importatore di pesce giapponese. Ma a rischiare sono anche e soprattutto i ristoranti e tutte le aziende di Tokyo operanti in Cina. Da più parti viene evocato un boicottaggio.
La notizia di Fukushima è di tendenza sui social media cinesi da diversi giorni, dove c'è chi dice "addio al sushi" ma anche a cosmetici e prodotti di intrattenimento giapponesi. Su Weibo, gli hashtag sul rilascio delle acque reflue hanno visualizzazioni nell'ordine dei miliardi. Poche cose polarizzano internet in Cina come la critica verso il "piccolo Giappone", termine dispregiativo tornato di moda con lo sversamento che per gli utenti rappresenta "un crimine contro l'umanità".
L'impatto della vicenda potrebbe durare persino di più della contesa territoriale del 2012. Una ricerca condotta dall'Università Tsinghua indica che le acque reflue raggiungeranno le coste cinesi entro 240 giorni. "Il Giappone inquinerà il mondo intero", ha scritto su Twitter l'ex direttore del Global Times, Hu Xijin. Difficile dunque capire come si possa riuscire ad abbassare i toni, visto che noti commentatori e rappresentanti del governo alimentano la portata dei timori.
La questione ha ovviamente un ampio risvolto politico. Difficile pensare che la Cina possa lasciarsi sfuggire l'occasione di criticare il Giappone dopo che il premier Fumio Kishida ha rafforzato nettamente l'allineamento con gli Stati uniti. Le acque di Fukushima rischiano peraltro anche di "intossicare" i rapporti da poco riavviati tra Giappone e Corea del sud, con le "nozze" celebrate la scorsa settimana a Camp David con Joe Biden. Il governo sudcoreano sostiene che non ci siano rischi, ma a Seul l'opposizione protesta a gran voce e attacca il presidente conservatore Yoon Suk-yeol per un altro "umiliante inchino" a Tokyo dopo l'accantonamento delle richieste di risarcimento per gli abusi della dominazione coloniale. Almeno 14 persone sono state arrestate per aver provato a fare irruzione nell'ambasciata giapponese.
A Taiwan, il governo ha garantito un costante monitoraggio delle acque e dei cibi importati. A luglio, le autorità avevano consigliato agli importatori di distruggere una spedizione contenente residui radioattivi, seppure fossero sotto i limiti consentiti.
Ne ho scritto qui e qui ( in collaborazione con Lucrezia Goldin).